O iubelo del core, che fai cantar d’amore! Quanno iubel se scalda, sì fa l’omo cantare, e la lengua barbaglia e non sa che parlare: dentro non pò celare, tant’è granne ’l dolzore. Quanno iubel è acceso, sì fa l’omo clamare; lo cor d’amor è appreso, che nol pò comportare: stridenno el fa gridare, e non virgogna allore. Quanno iubelo ha preso lo core ennamorato, la gente l’ha ’n deriso, pensanno el suo parlato, parlanno esmesurato de che sente calore. O iubel, dolce gaudio ched entri ne la mente, lo cor deventa savio celar suo convenente: non pò esser soffrente che non faccia clamore. Chi non ha costumanza te reputa ’mpazzito, vedenno esvalïanza com’om ch’è desvanito; dentr’ha lo cor ferito, non se sente de fore.
Iacopone da Todi, O iubelo del core
O gioia del cuore, che fai cantare per amore! Quando la gioia s’infiamma, fa cantare l’essere umano veramente, e la lingua balbetta e non sa quel che dice: non può nascondere dentro di sé la dolcezza, tanto è grande. Quando l’intima gioia raggiunge il massimo fervore, fa davvero gridare; il cuore è infiammato d’amore, al punto che non lo può sopportare: la gioia fa gridare stridendo, ma in quel momento non si prova vergogna. Quando la gioia ha preso interamente il cuore innamorato, la gente lo deride, pensando ai discorsi di costui che parla in modo irrazionale di ciò che lo brucia. O gioia, dolce piacere che entri nella mente, il cuore diventerebbe saggio, se nascondesse il proprio stato: eppure non può evitare di gridare. Chi non ne ha esperienza ti reputa impazzito, vedendo lo strano contegno, come di chi vaneggia; internamente ha il cuore ferito e non percepisce il mondo esterno.
Certo, l’amore di cui si parla è quello per Dio, ma in cosa differisce da quello per un essere umano? Quando amiamo, non proviamo forse lo stesso intenso sentimento di gioia e di ebbrezza che fa toccare il cielo con un dito? Non è, l’amor profano, una forma anch’esso di esmesuranza che può condurre allo spossessamento di sé, che ci fa straparlare con chiunque della persona amata, facendocela idealizzare e magnificare ben oltre ogni connotazione realistica, producendo il vaneggiamento (esvalïanza) finale? Si dirà che iubelo, termine frequente, oltre che nel componimento, nel lessico mistico in genere, non lasci àdito a dubbi sul fatto che di amore per l’Altissimo si stia parlando. Epperò Iacopone – bricconcello – per celebrare l’amor sacro, usa in abbondanza il lessico della poesia profana, disseminando la sua lauda di tanti provenzalismi tipici della lirica dei trovatori: il «cantar d’amore», il «dolzore», per dirne una, vengono da lì per poi fare rotta verso i siciliani.
La stessa impossibilità di profferire parola al culmine dell’estasi mistica («e la lengua barbaglia | e non sa che parlare») ricorda l’impaccio che coglie, in Madonna mia, a voi mando, Giacomo da Lentini in presenza della donna amata, e lo fa ammutolire quasi rincoglionito («da poi ch’e’ per dottanza / non vo posso parlare»). Per non dire che il ricorrente concetto del calore («Quanno iubel se scalda»; «Quanno iubel è acceso») come proiezione figurale dell’amore ha un suo corrispettivo in Guinizzelli di Al cor gentil rimpaira sempre amore («e prende amore in gentilezza loco | così propïamente | come calore in clarità di foco. | Foco d’amore in gentil cor s’aprende | come vertute in petra prezïosa»; «Amor per tal ragion sta ’n cor gentile | per qual lo foco in cima del doplero»). Queste spie che ci dicono della sicura conoscenza, da parte dell’autore, di modelli della tradizione, basterebbero a farci ritenere che egli volesse scrivere un testo “letterario”, una poesia d’amore, e non solo una preghiera. Connesso a questi motivi, è poi il motivo della dolcezza («tant’è granne ’l dolzore»; «dolce gaudio»); in siciliano (ma anche in calabrese), l’espressione «aviri u cori ‘nto zuccuru» (avere il cuore nello zucchero), che potrebbe figurare benissimo nel lessico della gentilezza cortese per significare la condizione di chi è infatuato, è pregnante anche per dire di come l’eccesso di dolcezza possa finire col produrre, dopo il picco dell’innamoramento, segnali di altra natura: malinconia, incupimento, tristezza. Esattamente come avviene al corpo e all’umore con l’iperglicemia.
A l’aire claro ò vista ploggia dare, ed a lo scuro rendere clarore; e foco arzente ghiaccia diventare, e freda neve rendere calore;
e dolze cose molto amareare, e de l’amare rendere dolzore; e dui guerreri in fina pace stare, e ’ntra dui amici nascereci errore.
Ed ho vista d’Amor cosa più forte: ch’era feruto, e sanòmi ferendo; lo foco donde ardea stutò con foco;
la vita che mi dè fue la mia morte, lo foco che mi stinse ora ne ’ncendo: d’amor mi trasse e misemi in su’ loco.
Giacomo da Lentini, A l’aire claro ò vista ploggia dare
Dal cielo sereno ho visto cadere pioggia, ed emettere bagliore di lampi; e la fòlgore trasformarsi in grandine e dai cristalli nivei prodursi calore;
e dolci cose diventare amare, e dell’amare rendere dolcezza; e due nemici restare in una pace perfetta, e tra due amici generarsi discordia.
E dell’Amore ho visto una cosa grandiosa: che io ero ferito e, ferendomi, mi guarì; spense col fuoco il fuoco di cui bruciavo;
la vita che mi diede fu la mia rovina, ora brucio dello stesso fuoco che già mi uccise: mi ha tolto dalle pene d’amore per mettermi di nuovo in esso.
La figura dell’Amore si direbbe essere l’ossimoro: mentre ci dà la vita ci consuma, ci innalza per poi abbatterci. È cura e malattia, vita che ci strappa alla morte e che ad essa ci riconsegna. Insomma, l’Amore si cura con l’amare, come suggerisce la leggenda – saccheggiata dalla poesia provenzale – della lancia di Peleo che guariva, con un secondo colpo, le ferite inferte dal primo. Ne è convinto anche il notaro Giacomo da Lentini che paragona l’esperienza a eccezionali fenomeni fisici ed atmosferici, in cui gli effetti sembrano contraddire le cause. Certo, può capitare tal fiate di vedere piovere col sole e riempirsi di luce la notte, ma come può un fulmine trasformarsi in ghiaccio o darsi calore dalla neve? Non era certo stolido il poeta; quel che a noi sembra incongruo era comune credenza nel Medioevo: il processo di congelamento fa sì che si produca calore dalla neve per mezzo della riflessione della luce solare. Quest’attenzione ai principi scientifici che governano i sentimenti era, altresì, usata prassi (vi ricorreranno ampiamente, tra l’altro, Guido Cavalcanti e Dante) e, almeno fino a Galilei, i poeti faranno largo uso di metafore scientifiche per spiegare qualcosa di ontologicamente non riducibile a teoria, qual è l’Amore. Lo stesso notar Giacomo, in un altro sonetto (Sì come il sol manda che la sua spera), paragona la freccia d’amore che passa attraverso gli occhi dell’amante alla luce che attraversa il vetro senza romperlo fisicamente. Ma il poeta di Lentini alzerà sempre più l’asticella, intensificando la tensione tra desideri sacri e profani, in uno dei suoi sonetti più famosi (Io m’aggio posto in core a Dio servire) in cui dirà qualcosa del tipo: io, Giacomo, voglio sì servire Dio per guadagnarmi un posto in Paradiso, ma sotto sotto non sono poi tanto sicuro di volerci andare, se questo vorrà dire allontanarmi dalla persona che amo.
Che questa sia passione dentro nata, manifestamente il ti mostro, perciò che, se sì sottilmente volemo guardare lo vero, quella passione non nasce d’alcuna cosa fatta, ma da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta, quella passione procede. L’uomo, quando vede alcuna acconcia ad amare e al suo albitrio formata, di presente comincia a desiderarla nel cuore, e poi, quante volte pensa di quella, tanto maggiormente nel suo amore arde, infino che diviene a pensare le fazioni di quella e distinguere le membra e immaginare gli suoi atti e disegnare per pensieri le segrete cose de’ membri segreti e disiderare d’usare lo uficio di ciascuno membro di quella. Dappoi che per pensieri è divenuto a questa piena congiunzione delle cose segrete, lo amore non sa tenere gli suoi freni, ma incontanente procede all’atto e l’aiutorio cerca di messo mezzano e come e ’l luogo e ’l tempo possa trovare acconcio a parlare, e più, che la brieve ora gli pare più che uno anno, perché all’amante niente gli par fatto sì tosto come vorrebbe: e molte cose l’incontrano in questo modo. Adunque, è quella passione dentro nata per pensamento di cosa veduta. A commuovere ad amore non basta ciascuna pensagione, ma conviene che sanza modo sia, imperciò che pensagione con modo non suole alla mente ritornare, sicché amore non può nascere di quella.
Andrea Cappellano, De Amore, cap. I
Ti dimostro chiaramente che la passione è naturale poiché, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione; ma procede dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, un uomo vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore, fino a che non giunge a più pieno pensiero. E comincia a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue membra, a immaginare i propri gesti, e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possedere tutto per il proprio piacere. Ma poi che giunge al pensiero pieno, l’amore non sa tenere il freno, e passa subito ai fatti; subito s’affanna a cercare complici e messaggeri. E comincia a pensare come incontrare la sua grazia, a chiedere luogo e tempo giusto per parlare, e un’ora gli pare un anno, perché non c’è nulla che possa subito saziare l’animo desideroso; e si sa che spesso succede così. Dunque la passione naturale procede da visione e da pensiero. Al sorgere dell’amore non basta il semplice pensiero, ma occorre che esso sia smisurato, perché il pensiero misurato non torna insistentemente alla mente, e da lì dunque non può sbocciare amore.
Come si amava nel XII secolo? Come oggi e come in tutti i secoli della storia dell’uomo. Ma è in quel torno di tempo che viene concepito un trattato fondamentale per capire che la disciplina dell’amore sopravvive immutata nella storia dell’uomo e, soprattutto, genera poesia. Lo si deve a tale Andrea “Cappellano”, secondo alcuni ciambellano del re di Francia Filippo II Augusto, secondo i più attivo alla corte di Maria di Champagne, figlia di quell’Eleonora d’Aquitania alla cui famiglia si deve – scusa, se è poco – la nascita e il diffondersi in tutta Europa della lirica trobadorica. Insomma, non si capirebbe un bel po’ della poesia della scuola poetica siciliana, di Guido Cavalcanti, come pure di Paolo e Francesca nel V dell’Inferno dantesco, senza aver letto il De Amore. Non si capirebbe, cioè, quanto assoluta e totalizzante sia la passione d’amore e come sovente sia destinata a restare per lo più insoddisfatta, poiché il desiderio eccede sempre la possibilità di essere pienamente soddisfatto. Perché l’amore nasce da un’ossessione del pensiero («da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta»): in principio è la “vista” dell’oggetto del desiderio a innescare il congegno esplosivo, ma perché questo diventi passione è necessaria quella che gli uomini del medioevo chiamavano vis cogitativa, cioè l’immaginazione interiore, quella che ci fa ripassare a memoria, ossessivamente, le fattezze, i gesti, le azioni quotidiane della persona amata, la sua presenza in situazione. Da qui, a cascata, tutte le sensazioni cui il discorso amoroso si associa, dall’attesa al timore, dalla speranza alla disillusione. Questo precipitato di fenomenologia sentimentale ha un’unica controindicazione, sinceramente antidemocratica: il suo autore non la riteneva proprio prerogativa di tutti tutti. Non dei ricchi e potenti né dei “rustici” (contadini e operai); vuoi perché i primi sono troppo presi da altre occupazioni per sopportare la lunga devozione che si deve a questo processo di affinamento dell’animo, mentre i secondi possono tutt’al più amare come «cavallo o mulo» (cioè «naturalmente») perché, se smettessero di lavorare, ne risentirebbe l’intera struttura economica. A fare il lavoro sporco dell’amore non restano, perciò, che gli sfaccendati professionisti dell’intelletto (poeti e professori, filosofi e artisti). Cappellano dixit.
In un saggio intitolato La medicalizzazione della vita, Leonardo Sciascia prende le mosse dalla Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès per riflettere su come e quando sia avvenuto il passaggio da «un’idea della morte all’interdetto sulla morte», e di come la “secolarizzazione” che caratterizza la morte moderna, sottratta al trascendente, al magico, e affidata alla potenza terapeutica della scienza, costituisca l’aspetto principale di quest’interdizione. La medicalizzazione della vita è, per lo scrittore siciliano, una forma d’irreversibile tecnicizzazione della malattia che ingenera, nell’individuo, l’effimera speranza di una guarigione, eludendo così la necessaria presa di coscienza, da parte del malato, della prossimità della fine.
Nel saggio di Ariès è ricordato invece che, nel medioevo, per quanto angosciante fosse l’idea, il trapasso avveniva nel proprio letto, in una dimensione che lo storico definisce «addomesticata», di cerimonialità pubblica, in cui il dolore era attenuato dalla partecipazione di tutta la comunità e da una ritualità priva di manifestazioni esasperate, e di cui l’unico atto ecclesiastico era l’assoluzione in limine mortis. Radunati i familiari attorno al proprio letto, i padri consegnavano ai figli le ultime raccomandazioni, in un estremo abbraccio ideale, poi il moribondo, volgendosi verso il muro, dava le spalle agli astanti, quasi per isolarsi, e si congedava dal mondo senza imbarazzo alcuno, al punto che non solo un qualsiasi sconosciuto di passaggio poteva prendere parte alla veglia, ma gli stessi bambini potevano assistere.
Nella remota Sicilia d’infanzia che Sciascia non cessa mai di ricordare, la speranza nella gradualità del trapasso era tale che una morte «subitanea», e cioè inaspettata, improvvisa, costituiva l’augurio riservato a chi era fatto oggetto d’odio mentre, al contrario, nei confronti dei cari vigeva una sorta di ‘pedagogia’ che assicurava, al momento dell’addio, la dolcezza di un intimo “accompagnamento” familiare, riconoscendo solo marginalmente al medico la possibilità di intervento: «La morte non veniva nascosta a chi ne sarebbe stato preda. L’ammalato veniva informato del suo stato: affinché si preparasse». Nella misura in cui proprio l’ineluttabilità della fine conferiva una dignità specifica alla condizione dell’agonizzante, a lui veniva riconosciuto un ruolo di messaggero col mondo dei morti, al punto che la comunità gli affidava messaggi da recapitare ai cari estinti: saluti per le anime dei conoscenti che si immaginava vagassero nel purgatorio e che gli si raccomandava di andare a cercare; notizie di avvenimenti familiari; rassicurazioni sul fatto che venissero celebrate delle messe in suffragio; richieste di intercessioni per la salvezza delle anime dei familiari viventi.
In una sequenza di Baarìa, di Giuseppe Tornatore, i parenti accorsi al capezzale di un morente gli affidano un lungo elenco di saluti da recare nell’aldilà ai cari defunti. La replica dello sventurato – «scrivetemi tutto, altrimenti me lo scordo» – sembra provenire da un aneddoto simile che racconta Sciascia per mostrare come l’idea del morire fosse cominciata a divenire «insopportabile» intorno alla fine degli anni Venti del Novecento. Un secolo fa, con l’affermarsi del potere della scienza, l’asettica oggettivazione della morte ha finito col neutralizzare il senso rituale, surrogando la dimensione privata della sofferenza con quella pubblica della conoscenza.
Nasce così il paradosso di una censura sull’ineluttabile, un interdetto che priva le esistenze individuali del loro peso specifico, riducendole a meri corpi. L’eliminazione della morte avviene cioè attraverso la rimozione dell’idea del morire ed esorcizzata, anche linguisticamente, con gli eufemismi che servono a denotarla (“fine della vita”; “venir meno”; “conclusione del cammino terreno”; “uscita dalla scena della Storia”; “decesso”; ovvero, relativamente al morto, quelle che lo denotano come colui che: “non è più”; “si è spento”; “è mancato”; e perciò è detto: “estinto”; “defunto”; “trapassato”; “deceduto”; “scomparso”; “tornato alla casa del Padre”), non già come surrogati pietosi, ma piuttosto come sostituti decorosi di qualsiasi altro riferimento diretto, ritenuto troppo sconveniente a chi ne faccia oggetto di conversazione.
Il momento nel quale avviene il passaggio dalla morte «addomesticata» di Ariès al tabù dell’angoscia e del dolore può essere fissato, secondo Sciascia, nel racconto La morte di Ivan Il’íč e nella messinscena che Tolstoj fa dell’emarginazione del malato dalla scena dei sani. Chi è Ivan Il’íč? Un borghese «ammodo», coscienzioso, di buona famiglia e di buon senso, sussiegoso con i superiori che possono agevolargli la carriera, membro della Corte d’Appello, cristallizzato in un’esteriorità di cui è parte un matrimonio di convenienza, perfettamente allineato a un’esistenza incolore e ordinaria, se non fosse per un banale incidente domestico che lo arpiona e lo condanna all’inesorabilità di un male incurabile.
Nel 1884 cui risale l’inizio della stesura del racconto, si moriva già “modernamente” di cancro, anche se la malattia non era ancora individuata con la precisione delle moderne tecniche diagnostiche. L’elemento nuovo sta nell’ineffabilità della malattia e forse già nell’essere innominabile, nell’essere tenuta nascosta al malato; c’è un elemento di “modernità” nella reticenza che affiora nelle visite mediche, così come nell’ipocrisia dei familiari che gli impongono la zelante osservanza delle terapie e delle prescrizioni cui essi per primi non credono, contribuendo a emarginarlo progressivamente, a neutralizzarlo.
Come scrive Ariès, il malato «viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità». L’aspetto interessante di questo transito dalla morte ‘popolare’, di tutti, a quella borghese della medicalizzazione del suo sentimento sta nel fatto che il malato, privato del diritto all’angoscia esistenziale, è condizionato dalla medicina, si abitua a pensare come i medici e non come uno che è arrivato al punto di doversi mettere in ascolto della propria fine. Sciascia avanza l’ipotesi che, per i familiari che recitano col malato la commedia dell’ottimismo, allo scopo di permettere anche a sé stessi, oltre che al moribondo, di tenere altro il morale «i medici e le medicine siano per loro, inconsciamente, strumenti punitivi verso colui che impudicamente li fa spettatori della propria morte, della morte», e fa l’esempio dell’insofferenza della tolstojana Praskov’ja Fedorovna per i lamenti che le infligge il marito.
Del resto, lo stesso auto-segregarsi fisico ed emotivo di Ivan Il’íč nello spazio a parte di una stanzetta in cui vivere la propria malattia, sentendosi «con tre porte chiuse in mezzo» prelude già all’idea della «dislocazione istituzionale» rappresentata dall’ospedale, o segna il passaggio, scrive Sciascia, «da una concezione dell’ospedale in cui il terrore di chi doveva finirvi corrispondeva alla vergogna dei familiari che erano costretti a portarvelo, a una concezione esattamente opposta: dell’andare in ospedale e del portarvi uno della famiglia, come segno di decoro e di mentalità moderna e civile».
La sconvenienza del dolore, il rifiuto collettivo a riconoscere la malattia per esorcizzarne la gravità, l’anestetico dell’ipocrisia generalizzata che camuffa la banale constatazione dell’inefficacia delle cure mediche e dell’accudimento domestico è però proprio ciò che tormenta il personaggio tolstojano che, nel momento in cui realizza l’ineluttabilità e indifferibilità del proprio appuntamento con la morte, è angosciato proprio dal fatto che tutti si affannino a ridurre l’atto terribile e solenne della sua morte al livello delle visite specialistiche e delle cure palliative che gli impongono. È allora che si ribella, si volta verso il muro e si rifiuta di cooperare e comunicare, chiedendo solo di poter morire, di non essere spossessato della morte, della propria morte, affermando così, al contempo, l’autenticità della vita, della propria vita.
Nella riflessione di Sciascia, tre sono gli aspetti che fanno di Ivan Il’íč il personaggio paradigmatico che percorre il crinale tra due epoche e segna l’evoluzione di un diverso atteggiamento dell’uomo occidentale di fronte alla morte e alla medicalizzazione della vita. Il primo è dato dalla «…confessione e comunione del morente [che] non ha più la funzione di metterlo in regola con l’aldilà, ma è ormai una formalità che fa da diversivo, pausa, da distrazione dal dolore; che conduce i pensieri dell’agonizzante, invece che alla morte e a Dio, alla vita, alla possibilità di guarire […] è come se al suo capezzale il prete avesse fatto consegna al medico della vecchia, antica idea della morte; e il medico non potrà che vanificarla, che surrogarla totalmente con l’idea della vita medicalizzata».
Il secondo aspetto è nel saluto che il protagonista del racconto riserva al figlio Vanja che si curva su di lui, baciandolo disperatamente fra i singhiozzi, quasi a trattenerne la vita che fugge; un congedo che procura pacificazione e sollievo al moribondo perché questi raggiunge finalmente la consapevolezza dell’inautenticità e meschinità della vita precedente e con essa il senso nascosto del vivere e del morire nei loro rapporti eterni. Ma si accompagna alla preoccupazione che il figlio «non veda la morte, che cominci a rispettare anch’egli, come tutti, l’interdizione che sta per cadere sulla morte».
E infine la moderna intuizione tolstojana dell’accomunare la figura del medico a quella del giudice attraverso il paragone che Ivan Il’íč fa tra sé stesso, uomo di legge, della cui imperscrutabilità nell’esercizio delle proprie funzioni giudicanti non è tenuto a dar conto a nessuno «poiché quel che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata» e l’uomo di scienza, depositario di ogni speranza di sopravvivenza concreta o ipotetica, che si rivolge all’agonizzante con l’impassibilità che gli deriva dal fare «astrazione dalla malattia e dalla salute, poiché quel che conta è l’affermazione della medicina, cioè della «medicalisation de l’idée de la vie». Che è come dire che, con il medico-giudice di Tolstoj, e poco prima di quel 1923 in cui Il dottor Knock di Jules Romains ne decreterà il «trionfo», siamo già all’idea di una medicina che burocratizza la morte, neutralizzando la sofferenza e sottoponendola alla consuetudine dei protocolli. Ed è ancora una volta felicemente spiazzante la dimensione borgesiana con cui Sciascia chiude il saggio, facendo notare come, a causa delle traslitterazioni dal cirillico, il nome del personaggio tolstojano sia trascritto in tre modi diversi nelle varie traduzioni e che forse potrebbe più semplicemente essere trascritto come Ivan Illich, che è anche il nome del sociologo austriaco che più di altri, nel 1975 in cui verrà pubblicato il suo Némésis médicale (Nemesi medica. L’espropriazione della salute), polemizzerà con la medicalizzazione della vita.
Un’ultima chiosa, su Tolstoj e Sciascia, su Ivan Il’íč e lo scrittore di Racalmuto, per dire che l’esorcizzazione della morte, attraverso ipocriti rituali propri di quella modernità omologante che annulla ogni valore trascendente e morale, e che Sciascia non fece mai mostra di amare, era anche il problema individuale di prepararsi alla propria fine. Così Tolstoj fa morire il principe Andréj Bolkonski in Guerra e pace, dopo le atroci sofferenze causategli da una granata che gli ha squarciato l’addome durante la battaglia contro Napoleone a Borodino: «Aveva la sensazione di allontanarsi da ogni cosa terrena e quella di una strana e gioiosa levità di tutto il suo essere. Senza impazienza e senza ansia, attendeva il compimento di ciò che incombeva su di lui. Quella cosa terribile, eterna, ignota e lontana di cui aveva sentito la presenza per tutta la vita, gli era ormai vicinissima e, per quella strana sensazione di levità dell’essere, quasi comprensibile e tangibile…»
Con la stessa pace nell’animo se ne andrà pure Sciascia, le cui ultime parole furono: «è l’alba», quasi a voler intendere di essere sopravvissuto, una notte ancora, alla via crucis di quel mieloma multiplo che gli aveva invaso il sangue, condannandolo alla paura, al dolore, alla paura del dolore. E chissà che non gli siano tornati in mente alcuni dei suoi versi giovanili – «Ora, in quest’alba che hanno le case, / il paese è come un vascello che salpa: / nella sua nitida alberatura / per me s’impiglia una vela di morte» – o la disarmante perplessità psicologica e metafisica dei personaggi in cui amò scheggiarsi: il piccolo giudice di Porte aperte che considerava la vita soltanto «caso e assurdità», capace di valere «soltanto in sé, nelle illusioni in cui la si vive»; il Vice del Cavaliere e la morte che si congeda dalla vita quando«era già eterno e ineffabile il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta»; il professor Franzò di Una storia semplice che nutre il suo cupio dissolvi della considerazione per cui «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».
Quali che siano stati i suoi pensieri, peraltro insondabili, vorremmo credere che le sue ultime parole affidate alla scrittura, nell’explicit di Una storia semplice, siano definitivamente riassuntive dello stato d’animo che ne ha accompagnato la fine: «Uscì dalla città cantando». Vorrei immaginare che la sua mente sia stata attraversata proprio dal ricordo del tolstojano Ivan Il’íč, e come lui, nell’ora fatale, si sia messo in ascolto, acquietato dal conforto della livida e luttuosa luce dell’alba, consegnato infine a una perfetta pace: «E la morte?Dov’è?». Cercò al sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’è? Ma che morte? Non c’era più paura perché non c’era più morte. Invece della morte, la luce. Dunque è così! – disse d’un tratto ad alta voce. – Che gioia!»
«Vorrei raccontare il morire, la morte come esperienza», aveva scritto Sciascia nella Medicalizzazione della vita, ancora ignaro del proprio destino, e assumendo proprio l’«impareggiabile tentativo» dell’Ivan Il’íč di Tolstoj come paradigma di un concetto destinato a segnare il discrimine tra due opposte idee della malattia e del modo di vivere la morte per malattia, limitandosi ad averne per conto suo solo «un’ultima suprema curiosità intellettuale». E a testimoniare la propria ars moriendi, restano le parole con le quali, descrivendo la fine del Vice, nel Cavaliere e la morte, sembra prefigurare la propria: «Cadde pensando: si cade per precauzione e per convenzione. Credeva di potersi rialzare, ma non ce la fece. Si sollevò su un gomito. La vita se ne andava fluida, leggera; il dolore era scomparso. Al diavolo la morfina, pensò. E tutto era chiaro, ora…»
Il rifiuto dell’angoscia di morte ha il suo fondamento in quello che Heidegger chiama l’«essere per la morte», una forma di «disadattamento», spiega Edgar Morin nell’Uomo e la morte, che consente «l’autenticità»: «La vita autentica è quella che in ogni istante sa di essere promessa alla morte e l’accetta coraggiosamente, onestamente. […] Bisogna smettere di eludere l’idea della morte, smettere di fare come se non si dovesse morire mai, come se la morte non ci fosse». Ma per Heidegger non si tratta di pensare all’orrore del cadavere o alla resurrezione. Si tratta invece, grazie alla scelta necessaria dell’autenticità, di diventare «liberi per la morte».
Una forma di ri-significazione, insomma, in cui l’aldilà non viene esorcizzato, ma diventa l’essenza stessa dell’essere, dell’esserci, rappresenta il rigore della spiritualizzazione contro la mutevolezza impura delle cose. Anche in quest’ottica si può leggere l’epitaffio che Sciascia si scelse per la sua tomba, la frase di Villiers de l’Isle-Adam «Ce ne ricorderemo di questo pianeta»: il ricordo da un lato, dunque, l’hicet nunc dall’altro a illuminare una concezione che fa del mondo una necessità e una fatalità, l’approdo di un percorso che ha salde radici nel passato e investe, nel presente, tanto l’autore che i propri contemporanei.