Se ti blocco ti cancello

In epoca di distanziamenti sociali, il nostro Io tenderà a definirsi sempre più come virtuale, conformato cioè allo spazio dei social network? Si indebolirà la percezione già labile che abbiamo dei reali rapporti umani? Era già avvenuta la mutazione antropologica in donne e uomini “dello schermo” (non in senso stilnovistico): dello schermo dei device elettronici, intendo, quelli con cui gestiamo ormai la socialità, esoscheletri digitali di una dimensione fittizia dell’essere, di identikit prêt-àporter che rendono oltremodo artefatte le relazioni interpersonali. La tecnologia ha favorito la comunicazione tra gli esseri umani in un senso quantitativo, non certo qualitativo, l’ha velocizzata, ma facendo perdere di vista il fatto che l’architettura di un rapporto umano poggia su pilastri costruiti col cemento armato della pazienza. Tanto più se questi rapporti sono di tipo sentimentale: la costruzione di un amore, canta Fossati, «spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore, non ripaga del dolore».

Non si ha più il coraggio, invece, di affrontare le “crisi” che, etimologicamente, hanno anche una valenza positiva, in quanto occasioni di discernimento e di crescita. Un segnale, in questo senso, è la diffusa pratica di chi si affida al ghosting per porre fine a rapporti sentimentali talvolta disfunzionali o sbagliati. Gosthing, letteralmente equivale a diventare un fantasma, cioè sparire improvvisamente rinunciando a spiegazioni e confronti, creando repentinamente un vuoto, stabilendo una distanza che si vuole sia incolmabile: si cancella, “bloccandola” (sui social o nelle app di messaggistica), l’identità di chi si ritiene responsabile di qualche torto come per una forma subdola di abuso emotivo che assuma le parvenze di una sorta di “killeraggio” virtuale. Le motivazioni possono essere di varia natura, ma è chiaro che si tratta di un’illusione. Paradossalmente, l’assenza rafforza ancor più il fantasma del rimosso e se la vittima viene confinata in una sorta di limbo psicologico in cui non ha la possibilità di elaborare fino in fondo il trauma dell’abbandono anche il carnefice finisce con lo scontare una condanna, vale a dire il riconoscimento del potere di chi non si riesce a sopportare nemmeno in una foto profilo e che, come le proverbiali scimmiette, sceglie di non vedere, non sentire e tanto meno parlargli. Una deliberata censura e autocensura di ragione e sentimento, insomma.

Certo, non esistono galatei della fine, ogni storia ha l’epilogo che si merita, ma le conseguenze sono sempre le stesse: da una parte o dall’altra c’è sempre qualcuno che soffre e a volte il dolore annichilisce, lascia senza pelle, a nervi scoperti e si vorrebbe solo dimenticare, come cercano inutilmente di fare i personaggi di quel geniale – per struttura narrativa e temi – struggente film che è Eternal Sunshine of the Spotless Mind, di Michael Gondry (regista) e Charlie Kaufman (sceneggiatore). Non certo una commedia romantica, come il rozzo e agghiacciante titolo italiano lascia intendere – Se mi lasci ti cancello (in questo genere di stupri traduttologici abbiamo fatto scuola) – piuttosto una riflessione profonda sul fatto che non esiste il tempo, ma solo la memoria che se ne ha – e questa non si può cancellare. I protagonisti Joel (Jim Carrey) e Clementine (Kate Winslet) che si rivolgono a una società che offre terapie di rimozione di cluster della memoria che hanno causato sofferenza e trauma da abbandono – che è in altri termini ciò che la psicoterapia definisce abreazione, cioè la scarica emozionale attraverso la quale un soggetto si libera di un trauma antico i cui termini essenziali sono rimasti inconsci – realizzeranno quanto inutile sia la pretesa di quell’illusione del pensiero desiderante che vorrebbe cancellare l’incancellabile, inutile poiché persino nelle più disastrate storie d’amore ci sono ricordi a cui non si vuole rinunciare, attimi fuggenti che continuano a risplendere anche nel peggiore disincanto. L’itinerarium mentis di Joel/Carrey, inquilino della propria memoria e prigioniero che vuole evadere da essa, si trasforma invece nel tentativo di impedire proprio l’intervento ‘abrasivo’ che resetta il tracciato mnemonico.

«Ricordare: dal latino re-cordis, ripassare dalle parti del cuore»; inizia così Il libro degli abbracci di Eduardo Galeano. I ricordi sono l’estremo abbraccio a chiunque abbia scelto di abitare disarmato la nostra vita, anche solo per pochi momenti sufficienti a regalarci l’apparenza di una qualche forma di felicità. L’infinita letizia della mente candida, dimentica del mondo e dimenticata dal mondo, è l’aspirazione che si esprime nei versi della bellissima Lettera di Eloisa ad Abelardo di Alexander Pope che danno il titolo a quel film: How happy is the blameless vestal’s lot! The world forgetting, by the world forgot. Eternal sunshine of the spotless mind!

Al netto degli spunti filosofici che la trama suggerisce – ci si può ritrovare dentro Parmenide Schopenhauer e Nietzsche che vanno a braccetto – il punto è che la serenità e la felicità non si possono simulare. Tutti devono imparare, prima o poi, dalla propria esperienza, come dice il testo di una canzone nel film: Everybody’s got to learn sometime. Solo così si può convivere con il dolore generato dall’abbandono e si può avere piacevole memoria di qualcosa o qualcuno che ci ha fatti soffrire. È pur vero che nemmeno l’amore riesce ad essere eterno quanto la delusione, ma questa si presta almeno meglio ad essere anestetizzata dall’indulgenza del tempo. Almeno così sembrava pensarla Boccaccio nel suo Decameron quando, nel proemio, scrive che, prima di affidarsi al potere terapeutico della scrittura (dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo), gli era successo di innamorarsi perdutamente (essendo acceso stato d’altissimo e nobile amore) di una donna non adatta a lui (forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe) e di esserne quasi impazzito (mi fu egli di grandissima fatica a sofferire… per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito). Ma di esserne infine uscito, conservandone persino imprevedibilmente un buon ricordo (si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando), in grado di procurare persino piacere (ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso). Ciò perchè l’amore, come tutte le cose che il buon Dio ci ha riservate (ma sì come a Colui piacque) è destinato prima o poi a finire (per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine nella vita) al pari di tutte le cose umane.

Insomma, l’equilibrio imporrebbe al saggio di considerare sempre che la fine di una storia d’amore non è qualcosa che si è perduto, ma qualcosa che si è avuto. Che è già auspicio nobile e saggio, se non fosse contraddetto dal risentimento che finisce con l’intossicare anche i ricordi che dovremmo proteggere dal veleno delle recriminazioni. A dispetto di quelle sagge proposizioni d’intenti, un Boccaccio cinquantenne mostrerà di non aver appreso fino in fondo l’arte dell’«emanciparsi dall’incubo delle passioni», come canta Franco Battiato. Con piglio decisamente politically uncorrect, se la prenderà, nel Corbaccio, con una vedova (il nero corvo malefico del titolo) “colpevole” di non aver ricambiato il suo interesse. Altro che l’esaltazione della nobiltà e dell’intelligenza femminile del contemporaneo trattato De mulieribus claris, scritto “in alta lode del sesso femminile” («in eximiam muliebris sexus laudem»)! Se fosse vissuto ai giorni nostri, l’autore del Decameron avrebbe potuto liquidare la questione semplicemente bloccando la donna su Whatsapp, piuttosto che indirizzarle il furore delle più livorose contumelie, facendo così propri tutti i clichés della misoginia medievale sul famigerato «porcile di Venere». Che delusione!

Amleto 2.0: the social dilemma

da William Zuckerberg, Hamletless, ATTO III – SCENA I:

Esserci, o non esserci, questo è il dilemma: se sia più nobile all’animo sopportare l’amico o l’ex che ignorano i tuoi stati, l’affronto delle foto in spiaggia e delle apericene al bar sul lungomare, o armarsi di buona volontà e risolutamente bloccarli? Cancellarsi, tacere, nient’altro, e disattivando gli account porre fine alla vanità annoiata e alla banalità delle fake news che sono la naturale eredità dei social: è questo l’epilogo da anelare devotamente.SocialDilemma-800x540

Cancellarsi, tacere. Cancellarsi, forse disattivare ma temporaneamente. Sì, questo è l’ostacolo, perché in quella morte apparente che è l’assenza quali fantasie di ritorno possano sopravvenire, dopo che ci saremo liberati di quell’ingombro mortale che sono Facebook e Twitter, deve farci riflettere. È questa esitazione che dà alla sventura una vita così duratura. Perché chi sopporterebbe le allusioni malevole e le offese del collega risentito, gli scherni del tempo dissimulati dai filtri fotografici di Instagram, gli spasimi che procura un like tattico disprezzato, il ritardo delle risposte ai tweet, l’insolenza delle cariche pubbliche esibite nei profili, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi tregua con un semplice click?

app-Chi porterebbe il fardello di tutte le app che intasano gli smartphone, imprecando affannato sotto il peso di una vita rallentata dall’ossessione del controllo delle notifiche, se non fosse che il terrore di essere ignorati dopo la cancellazione dell’account, limbo inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore dovrebbe far ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?
Così l’insicurezza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e decisioni di grande saggezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azioni.

Le imperdonabili di Antonio Di Grado

Domattina Antonio Di Grado terrà la sua lezione di commiato dall’università. Lo farà al Monastero dei Benedettini di Catania, il luogo che più ne ha contrassegnato la brillante carriera di studioso e di docente. Lo farà pedinando un tema che gli sta a cuore da anni e su cui solo di recente ha trovato il modo inconfondibile di ingaggiare l’indifferibile corpo a corpo: le visionarie di ogni tempo, dalle Marie dei Vangeli alle beghine e alle mistiche del Medioevo, da Simone Weil a Cristina Campo, da Clarice Lispector ad Anna Maria Ortese. Lo farà da par suo, nei modi che gli sono più congeniali della “conversazione” che intreccia numerosi percorsi di creatività e di fede com’è nel libro suo ultimo che tutto del suo passato comprende – stile, temi e strategie critiche – e cioè Le amanti del Loin-Prés. Ma non è di questo libro che voglio parlare, almeno per il momento, bensì di lui che, per me, non è stato solo un modello di insegnamento a cui mi sono sempre ispirato, ma l’interlocutore privilegiato dei miei dubbi critici, lo sherpa che mi ha guidato con sollecitudine e pazienza nell’esplorazione di libri, il consulente che mi ha ispirato le trame critiche che vado ancor oggi imbastendo, disseminando dubbi e domande che fatalmente ne hanno rimescolato le carte. E ancora il fratello maggiore, l’amico che per me vive dentro il rito di passeggiate, ora pensose ora scanzonate, tra i corridoi del “nostro” monastero, di quell’amicizia irrinunciabile che scintilla nel silenzio di pudiche complicità, che mi regala salde convinzioni e mi riserva passioni adulte, cara a coloro che cercano i propri modi di sentire, come scrive Vitaliano Brancati, «nella dispensa, ove le cose più pregiate sono le più antiche».

La sua lezione più bella e importante, quella che consegna a me e ai suoi tanti allievi, è un’idea di apprendimento e di insegnamento, inusuali in un’università in cui il più delle volte si coltivano e si difendono privilegi, ci si arrocca in arcigne torri d’avorio, ci si guarda bene dal praticare spontaneamente la salutare igiene dello scambio scientifico e persino dall’azzerare o almeno abbreviare distanze gerarchiche, seppure in nome del comune interesse umanistico.

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Quello che accomuna i suoi libri, le sue ricerche, quello che potrebbe costituire il suo “metodo” (parola che per certi aspetti gli ripugna) ha qualche attinenza con una storiella che si può leggere tra di un critico di cui non dirò subito il nome: secondo una teoria cabbalistica, il male si sarebbe affacciato al mondo “attraverso la fessura capillare di una sola lettera errata… dalla trascrizione sbagliata di una sola lettera o parola quando Dio dettò la Torah al suo scriba eletto”. Il male, la sofferenza, sono dunque un fatale refuso nel dettato divino. Ipotesi suggestiva, ma ancora di più lo è la deduzione di questo critico, di cui chierici e oltranzisti, per quanto accigliati, dovrebbero tenere conto: questa genesi del male suggerisce infatti “una definizione dell’ebreo come colui che legge sempre con la matita in mano”. Insomma, siamo tutti impegnati (ebrei o valdesi, buddhisti o laici, ma con la matita in mano o stretta fra le pagine di un libro appena chiuso), se non a rimediare all’irreparabile svista primigenia quanto meno a prevenirne un’altra, per amore di questo perfettibile mondo.

Il critico di cui ho omesso il nome in prima battuta si potrebbe collocare come granitico cippo al crocevia di tante stagioni critiche attraversate anche da Di Grado: mi riferisco a George Steiner, eclettico cittadino della parola per il quale non ha senso postulare razionalmente significati univoci nella forma estetica prescindendo dall’ipotesi attiva della possibilità della trascendenza o di Dio. E l’importanza che Di Grado ha sempre dato all’atto della lettura-interpretazione è, di fatto, un’aperta dichiarazione di profession de foi nel linguaggio e nella lettura del testo contro i masochistici metodi critici e le autolesionistiche dottrine che del senso costituiscono la mortificazione.

Una critica, la sua, che perciò si potrebbe definire fideistica e che è anche stata la dedizione appassionata a un’Idea d’insegnamento che l’università ha spesso mortificato e avvilito, un’idea di apprendimento che legittima e scatena astratti furori e che pure lui si è ostinato a far resistere e rinascere per altre vie che, in passato, sono stati i forum telematici, oggi è quel ring del pensiero libero di Facebook, il suo sfogatoio pubblico, che credo lo abbia affascinato dopo decenni di militanza svolta per altre vie perché vissuto non come una rete che crea lontananze e solitudini, ma un ponte, un luogo di confine e di passaggio per avvicinarsi a mondi diversi, in un passaggio scambievole, appunto, tra il corpo fisico e il corpo che viaggia nello spazio virtuale, giocando con intelligenze multiple, mescolando i piani, i saperi, le conoscenze.

Nei tanti giovani che ha formato io ne rivedo oggi uno che molti anni fa, entrando in un’aula in cui teneva lezione, rimase folgorato, abbandonò il relatore che aveva già scelto e gli chiese di poter svolgere con lui una tesi di laurea perché era rimasto irretito, nel bene e nel male, dall’affabulatoria malìa di un professore da cui intuiva che avrebbe avuto molto da imparare, anche umanamente perché amava confrontarsi, esporsi, esibire simpatie e avversioni, indipendentemente dal fatto che gli capitasse, nella vita, di aver fatto il critico o l’assessore, l’autore teatrale o il direttore di una Fondazione, il presidente di un Teatro o di un’associazione politico-culturale.

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Da quando sono un suo collega, e a maggior ragione oggi, sento di avere una responsabilità, sento il bisogno di raccogliere il testimone di una staffetta. Non voglio nemmeno immaginare cosa sarà per me entrare al monastero e non vedere più la lama di luce che al mattino esce dalla porta del suo studio, indizio della sua presenza e sentiero che mi invita a entrare per un consueto scambio di battute o per il rituale caffè della mattina. Non riesco d’altro canto a immaginare come possa sentirsi lui, cosa possa significare congedarsi da una professione vissuta piuttosto come il “mandato” di chi è stato, per molti giovani ed ex giovani come me, ciò che Kafka diceva dei libri in una sua lettera: “un rompighiaccio per spezzare il mare gelato dentro di noi”.

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E mi viene in mente una scena della Commedia dantesca che mi sembra un passaggio fondamentale per capire il rapporto tra maestro e allievo, e cioè quando, alla fine del XXIII canto dell’Inferno, Virgilio capisce l’inganno di Malacoda che ha affidato i pellegrini alle cure di dieci diavoli neri assicurandoli del fatto che avrebbero trovato un passaggio agevole lì vicino per uscire dalla Bolgia. Si tratta del più clamoroso e consapevole errore di valutazione del duca, tanto inaspettato che un frate dannato, Catalano dei Malavolti, si prende gioco sarcasticamente della sua buona fede dicendogli che nella dotta Bologna aveva già sentito dire che tra i difetti del diavolo ci fosse anche l’esser «padre di menzogna». A quel punto tocca al fedele Dante raccogliere il testimone, proteggere il maestro, svolgere il compito di porsi sulle sue «care» orme. Il semplice aggettivo – “care” – dice tutto dell’affetto e della fiducia che l’allievo ripone nella propria guida. E dice altresì del superamento della paura, del senso di incertezza e di inadeguatezza iniziale, grazie a quella rassicurante presenza nel solco del cui magistero l’allievo intende la necessità. Il rapporto tra i due è qui di una tenerezza struggente: il porsi «dietro a le poste de le care piante» (Inf., XXIII, 148) è il riconoscimento ulteriore di un ruolo non astratto, come poteva essere per Dante l’insegnamento di Brunetto Latini. Qui è l’allievo che fa di Virgilio il Maestro e non questi che impone un sigillo elettivo sul discepolo, perché lo fa diventare materia della propria storia, proclamandogli devozione inalterabile, accarezzandone la momentanea tristezza, nel momento in cui capisce che la sua fede non trema più.